Grosso modo ciò che la società inglese Cairn Energy ha pensato quando ha dato inizio alle trivellazioni nelle acque in prossimità della Groenlandia.
L'area del circolo polare artico secondo recenti (e non solo) studi e rilevazioni effettuate, risulterebbe ricchissima di oro nero: i dati ufficiali riportano che il 13% degli interi giacimenti petroliferi mondiali e il 30% del gas si troverebbero proprio sotto i ghiacci artici.
Estrarre petrolio nelle aree artiche è una sfida contro la natura che ha pochi confronti, sia che avvenga in mare che sulla terraferma. Gli uomini addetti ai lavori, qualunque attività eseguano, devono fare fronte ai movimenti del pack, agli iceberg, alle temperature estremamente fredde, alle tempeste e alle condizioni estreme quando scende la notte artica che dura circa 6 mesi.
Appare chiaro il motivo per cui oltre alla Gran Bretagna, grandi Paesi come USA, Canada e Russia stanno effettuando importanti rilevazioni nel mare artico.
"Con questa spedizione vogliamo definire con precisione quali sono i confini geologici dei nostri territori, quelli cioè che il trattato internazionale dei mari permette di considerare propri e quindi di esplorarli e sfruttarli", ha spiegato Brian Edwards del Servizio Geologico americano. La Russia aveva preceduto tale spedizione con una propria nave e due anni fa aveva mandato fin sul fondo del Polo Nord un sommergibile dove piantò la propria bandiera.
Verrebbe da chiedersi se alla luce del disastro, da molti annunciato, della Deep Horizon, quali sono i reali rischi a cui ci si imbatte nel tentare trivellazioni in aree così remote, al limite estremo della terra.
Per questi motivi le compagnie petrolifere al momento stanno esplorando le aree marine più vicine alle coste e le più accessibili e, quando è possibile, cercano di costruire piccole isole artificiali da collegare alla terraferma così da trasformare un'esplorazione off-shore (in mare aperto) in una su terra. Quando non è possibile si costruiscono gigantesche strutture in acciaio che vengono ancorate sul fondo marino. La piattaforma russa Prirazlomnoye, ad esempio, quasi completamente costruita su un campo petrolifero dove si prevede la presenza di 610 milioni di barili e che si trova al nord della Russia, peserà 100.000 tonnellate e si trova su un mare profondo 20 metri. In questo caso sarà la sua gigantesca massa a proteggerla dal ghiaccio che la assedierà per otto mesi l'anno.
Quando bisognerà andare ancor più al largo le piattaforme saranno costantemente protette da rompighiaccio. La prima di queste sarà anch'essa russa e verrà costruita a 650 km dalle coste con un mare profondo 300 m e costantemente circondata dai ghiacci. Essa inizierà ad operare nel 2016.
Tutte le compagnie petrolifere insistono nel sostenere che le piattaforme saranno a prova di ogni evento estremo. Ma nonostante questo, molti gruppi ambientalisti fanno presente che il pericolo non viene solo dalle piattaforme ma anche dalle navi che dovranno fare la spola con esse per rifornirsi di olio. Il pack, gli iceberg e le tempeste renderanno inevitabili gli incidenti e in acque fredde una fuoriuscita di petrolio potrebbe creare danni realmente irreversibili all'ambiente. In quel mondo infatti, una fuoriuscita di greggio può essere contenuta solo in estate, ma le acque molto fredde rendono l'olio molto più stabile che non in quelle calde. Per la natura è assai più difficile eliminarlo e, come si è visto in Messico, l'uomo riesce a fare ben poco.
Fonte: Greenpeace, La Repubblica
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