Pare assurdo che gli abitanti più antichi di questo nostro pianeta abbiano una aspettativa di vita così breve!
Secondo uno
studio pare infatti che entro il 2048 la gran parte dei grandi pesci scomparirà dagli oceani. Un altra drammatica dimostrazione di quanto può essere devastante la mano dell'uomo.
Entro il 2048 quasi estinti i grandi pesci
Dal punto di vista ecologico guidare un fuoristrada Hummer e ordinare un sushi di tonno rosso in un ristorante sono altrettanto devastanti
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON — Qual è la differenza tra guidare un fuoristrada Hummer dallo smodato consumo di benzina e ordinare un sushi di tonno rosso in un ristorante? La risposta esatta è: nessuna, entrambe le azioni sono devastanti dal punto di vista ecologico. Come, si chiederà il nostro lettore, bruciare ossido di carbonio, aggravando l’effetto serra e il riscaldamento del clima, è la stessa cosa che mangiar pesce, dieta perfetta per rallentare l’invecchiamento? Duro da ammettere, è proprio così.
TONNI ROSSI - Poche creature degli oceani hanno la maestà dei grandi tonni rossi, siluri argentati e idrodinamici che possono arrivare a 700 chilogrammi di peso, 4 metri di lunghezza, eppur muoversi velocemente a oltre 40 chilometri l’ora. Ma il «Bluefin» ha anche un’altra caratteristica, la carne più buona del mondo. E negli ultimi trent’anni un’armada sempre più tecnologicamente all’avanguardia e micidiale, fatta di navi e aerei da ricognizione, reti speciali, radar, sonar e perfino satelliti, ne ha decimato la popolazione. Lo sterminio del tonno Bluefin è emblematico di tutto quanto c’è di criminale e distruttivo nell’industria della pesca nel mondo. Dove un’alleanza potente, fatta di multinazionali senza scrupoli, lobbisti, governi compiacenti, consumatori irresponsabili e perfino accademici senza etica sta accelerando una catastrofe sistemica, con conseguenze incalcolabili per il pianeta.
LA FINE DEI PESCI- Finiranno i pesci? Non è più solo una domanda retorica. Secondo uno studio della rivista Science, in mezzo secolo siamo riusciti a ridurre del 90% la popolazione di tutti i grandi pesci preferiti dal mercato. Di più, se nulla accadesse, se le catture continuassero a questo ritmo, entro il 2048, anno più anno meno, tutte dicansi tutte le specie ittiche commerciali avranno subito un «collasso» generale, nel senso che se pescherà sì e no il 10% dei livelli massimi, cioè quelli degli Anni ’80. Con le parole di Daniel Pauly, scienziato e docente al Fisheries Center della University of British Columbia, «i pesci sono in grave pericolo e se lo sono loro, lo siamo anche noi».
IL SAGGIO - «Aquacalypse now» ha definito Pauly l’inquietante prospettiva, in un recente saggio pubblicato su The New Republic e dedicato alla «truffa» messa in atto sin dagli anni Cinquanta dagli uomini contro gli oceani e i loro abitanti. Uno schema predatorio, rivolto all’inizio contro le popolazioni di merluzzi, pesci spada, naselli, sogliole e platesse dell’emisfero settentrionale. Poi, man mano che queste famiglie si assottigliavano, le flotte si sono mosse sempre più a Sud, prima verso le coste dei Paesi in via di sviluppo e da ultimo verso i fondali dell’Antartico, in cerca di specie nuove e sconosciute. Quando poi i pesci di grande taglia e alto valore hanno cominciato a scomparire, dai tropici ai poli non c’è stata più frontiera e limite: le barche hanno preso a catturare qualità sempre più piccole, mai in precedenza considerate commestibili per l’uomo. L’alleanza sciagurata degli interessi ha funzionato benissimo, alimentata da una domanda mondiale di pesce insaziabile e disposta a pagare qualsiasi prezzo, pur di avere le qualità più prelibate. Ma ora la lunga festa sta per finire. Nel 1950, secondo i dati della Fao, nel mondo si catturavano 20 milioni di tonnellate metriche di pesce e molluschi. Alla fine degli Anni ’80, il pescato mondiale raggiunse il massimo storico di 90 milioni di tonnellate. Da allora, è in declino costante. Come in una immane catena di Sant’Antonio, che richiede i soldi di sempre nuovi finanziatori per pagare i precedenti e rimanere in piedi, l’industria ha avuto bisogno continuamente di nuovi stock di pesce per continuare a operare. Invece di regolare periodi e quantità delle catture, consentendo alle specie di riprodursi e stabilizzare i livelli di popolazione, è andata avanti fino all’esaurimento, spostandosi altrove e saccheggiando i mari. Se per l’Occidente ricco e affluente la fine dei pesci può sembrare una semplice disgrazia culinaria, per i Paesi emergenti, soprattutto nelle regioni più povere dell’Africa e dell’Asia, il pesce è la principale risorsa di proteine e una fonte di reddito per centinaia di milioni di persone, piccoli pescatori e rivenditori. E non c’è solo questo.
«EFFETTI COLLATERALI» - «L’impatto della riduzione della fauna marina sull’ecosistema degli oceani è stato del tutto sottovalutato», ammonisce Boris Worm, biologo dell’Università di Kiel in Germania. «Fenomeni come l’esplosione della popolazione di meduse e le alghe morte in molte zone costiere del mondo sono la diretta conseguenza della sparizione dei predatori dall’ecosistema marino», spiega Pauly, secondo cui la dinamica è aggravata dal progressivo riscaldamento dei mari. Eppure, l’Aquacalypse non è inevitabile. La buona notizia è che non è troppo tardi per scongiurarla, a condizione che i governi si mobilitino. Ma quello necessario è un tipo d’intervento sofisticato e coraggioso, ben oltre l’imposizione di quote annuali, che comunque andrebbero strutturate in modo nuovo per esempio distribuendo «accessi privilegiati » a un numero limitato di pescatori. Né basta una pur necessaria campagna di educazione dei consumatori, per incoraggiare prudenza e saggezza di scelte. Illusoria è anche la promessa dell’acquacoltura, che secondo alcune statistiche fornirebbe oggi già il 40% del pesce consumato nel mondo. Intanto perché non c’è nessuna affidabilità sulle statistiche fornite alla Fao dalla Cina, che produrrebbe già quasi il 70% del totale. Ma soprattutto perché, fuori dalla Repubblica Popolare, il settore produce principalmente pesci carnivori, come il salmone, nutriti cioè con olii e macinati di aringhe, sgombri e sardine: «Ci vogliono quasi 2 chili di pesci piccoli per produrre mezzo chilo di uno grande — spiega Pauly —, è come rubare a Pietro per pagare Paolo. In Occidente l’acquacoltura è un lusso, dal punto di vista della sostenibilità globale». In realtà, aggiunge lo studioso, il punto centrale è scoraggiare il complesso industriale della pesca, riducendo i sussidi: «Questo consentirebbe alla popolazione ittica di ricostruirsi, mentre i miliardi risparmiati potrebbero essere investiti nella ricerca per gestire meglio gli stock». Di più, «tocca ai governi dividere in zone l’ambiente marino, identificando le aree dove la pesca è tollerata e altre dove non lo è». Tutti i Paesi marittimi possono regolare i tratti fino a 200 miglia dalla loro costa, in base al Trattato del Mare dell’Onu: si tratterebbe quindi di creare un network planetario di riserve marine. Più facile a dirsi. Ma tant’è: «L’obiettivo minimo è ridurre del 50% la mortalità, per evitare l’ulteriore declino di specie a rischio», spiega Ransom Myers, biologo marino alla Dalhousie University in Canada.
Fonte: Corriere della sera